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Un elogio del gioco e delle forme

Nell'ultimo saggio pubblicato da Nottetempo, "La scomparsa dei riti", Byung -Chul Han aggiunge un altro capitolo alla sua critica della società neo-liberista. Dove al culto narcisistico dell'interiorità si oppone l'esteriorità del rito. E a un'arte divenuta discorso la vitale magia del gioco estetico delle forme

20 Mar , 2021

Un elogio del gioco e delle forme

“I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità” Così, con quella concisione icastica che sempre caratterizza il pensiero del suo autore, entrando senza molti preamboli nel vivo della questione, inizia La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, l’ultimo libro del filosofo coreano-tedesco Byung -Chul Han che Simone Aglan- Buttazzi ha tradotto per Nottetempo: chiara la definizione di ciò che è rituale e di ciò che non lo è, altrettanto evidente la posta in gioco, la scomparsa dei riti, il deperimento delle forme simboliche, è un ulteriore sintomo di quel processo di atomizzazione sociale che questo pensatore va sviscerando da tempo in ognuno dei suoi saggi, mai troppo lunghi, che sono altrettanti capitoli di un’unica opera. E così non sorprende che parlando di riti si torni a parlare di tempo (un argomento al quale il filosofo ha già dedicato Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose) e soprattutto di durata, perché una delle funzioni delle pratiche rituali è proprio quello di stabilizzare il tempo, di liberare l’esistenza dal sentimento di angosciante contingenza che divora l’individuo tardo-moderno imprigionato nella propria auto-referenzialità e nell’incessante imperativo a produrre: nel vuoto simbolico, scrive Han, si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. “L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente.” Privato di una struttura, il tempo si trasforma in un flusso incostante, in una mera sequenza di istanti episodici; poiché niente gli offre un sostegno si precipita in avanti – e un tempo che si precipita in avanti, lo si può consumare, lo si può massimizzare nello sforzo produttivo, trasformarlo in un caleidoscopio di emozioni che si scacciano una con l’altra, ma non lo si potrà mai abitare. E così mentre tutto, nel mondo sembra scommettere sull’impermanenza, sulla dissoluzione di tutte le forme stabilite in nome di una continua invenzione del nuovo, che subito diventerà vecchio e verrà sostituito da qualcosa di ancora più nuovo, ecco che il filosofo che ha scritto prima un elogio della stanchezza, poi uno della lentezza dell’eros, parla invece di stabilità, di durata, di forme, sostenendo che, dopo aver disincantato il mondo e delocalizzato tutti i suoi spazi, c’è bisogno di tornare ad abitarlo, a calpestarlo,addirittura di mettere su casa. Quella dell’accasamento, infatti, è una delle principali figure che compaiono nelle prime pagine, le più intense, de La scomparsa dei riti: Byung Chul-Han la prende in prestito da Hegel ma poi la dispiega attraverso una descrizione ben più morbida tratta da Cittadella di Antoine de Saint-Exupéry: “I riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. E’ bene che il tempo sia una costruzione. In tal modo posso procedere d’onomastico in onomastico, di compleanno in compleanno, di vendemmia in vendemmia, come da bambino camminavo dalla camera di consiglio alla camera silenziosa, fra le spesse mura del palazzo di mio padre, nel quale tutti i passi avevano un senso.” Passaggio un po’ proustiano, che profuma di nostalgia (e, con i suoi palazzi patriarcali, di aristocrazia). Ma che restituisce bene la frattura che attraversa tutta la materia di un libro che scansa quasi con fastidio l’ingenuità dei ritorni– “il presente saggio”, avverte Han nella nota iniziale, “non è animato dallo struggente desiderio di un ritorno ai riti” – e vuole utilizzare il passato rituale come un “lucido di contrasto dinanzi al quale il nostro presente assume contorni più netti”. Su questa cartina di tornasole sono proprio le patologie dell’oggi ad affiorare in tutta la loro mostruosa evidenza: la dispersione del tempo; il narcisismo dell’emozione e la continua esaltazione di un’autenticità e di un’interiorità individuali di cui non si vede mai il fondo; la serialità come modello di consumo di narrazioni e di immagini che conduce fino a quel fenomeno di saturazione chiamato binge-watching – al guardare fino a stramazzare, a cadere in coma – l’arte che rinuncia alla forma per farsi discorso, contribuendo ad accrescere il rumore bianco di una società che non sta mai zitta; la crisi del gioco come base del sapere e della conoscenza, rimpiazzato dalla velocità di calcolo dei big data; la fine della seduzione ( che fu già al centro del pensiero di Jean Baudrillard) per far posto a una sessualità brutale dove essendo tutto trasparente niente è più ludico o misterioso. C’è un po’ tutto il repertorio dell’infelicità contemporanea. Liquidando l’esteriorità dei riti in nome dell’interiorità dell’individuo, sostiene Han, finiamo per perdere anche qualcosa di prezioso: il rapporto con un orizzonte, sacro o comunitario che sia, più vasto dell’Io.

Nel continuum de La scomparsa dei riti tutto si lega: il simbolo al rito, il rito alla ripetizione (e a quella che Soren Kiergegaard definiva “ripresa”), la ripetizione alla festa, la festa al gioco – in una bella rilettura di Homo ludens di Huizinga – e al sacrificio, con un problematico ritorno sul pensiero di Georges Bataille: l’autore è perfettamente consapevole delle potenzialità regressive di una riproposizione di quella “sfida simbolica” incentrata sul superamento della paura della morte che istituisce la cruciale opposizione tra sovranità e servitù, tra dépense signorile e improduttiva e servilismo della produzione. E da cui scaturisce anche un pensiero della e sulla guerra (“l’antica festa crudele”, come la definì uno storico italiano) che arriva, e si ferma, a Clausewitz, perché più in là incontra il gioco al massacro in cui la potenza tecnologica degli armamenti moltiplica gli effetti di distruzione e sbaraglia definitivamente i modelli (aristocratici) della sfida, del duello, del contatto. In quella che suona come una decisa riabilitazione dello spazio rispetto al tempo – il nunc che già secondo Paul Virilio era rimasta l’unica unità di misura della tarda modernità – il pensatore coreano rilancia la dimensione locale, se non decisamente territoriale, dell’esistenza umana e riabilita le chiusure rituali, intese come possibilità di compimento, di contro all’indeterminata apertura delle società neo-liberali. Ma la lingua batte dove il dente duole: se la totale de-localizzazione è distruttiva, e la dimensione globale fondamentalmente inabitabile da una percezione intensa e non estesa – fautori di una “realtà aumentata” leggete qua – se il luogo rende possibile l’abitare e il soggiornare, nel contempo, quando le leggi dell’ospitalità non lo soccorrono, rischia di respingere lo Straniero, l’Altro. “E’ difficile – scrive l’autore di Psicopolitica – aspettarsi ospitalità da un collettivo arcaico. Un ingenuo elogio della chiusura diviene inammissibile alla luce della possibilità della violenza che una chiusura fondamentalistica del luogo porta con sé.” Violenza sul lato della globalizzazione, violenza nel contraccolpo e nella reazione identitaria alla globalizzazione: Byung- Chul Han fotografa l’aporia che imprigiona il mondo.

E’ nella riflessione estetica che attraversa il libro che le argomentazioni de La scomparsa dei riti si rivelano più toccanti e più profonde – e più in controtendenza. Anche la cultura, secondo Han, viene profanata ed esiliata dal sacro ambito del gioco in cui è nata. E’ uno dei tanti frutti avvelenati di quella “coazione all’autentico” che rende tutto imponderabilmente soggettivo, anche l’arte “viene oggi sempre più profanata e privata dell’incanto; la magia e l’incanto che rappresentano la sua effettiva origine l’abbandonano a favore del discorso. L’Esterno favoloso viene sostituito dall’Interno autentico, il significante magico dal significato profano. Al posto di forme stringenti e seducenti si fanno largo contenuti discorsivi. La magia cede il passo alla trasparenza, l’imperativo della trasparenza sviluppa un’avversione alle forme (…)” Di quale arte sta parlando Byung-Chul Han? Dell’arte che chiamiamo contemporanea, che sempre più rinuncia all’impatto estetico dei significanti, al gioco delle forme, per farsi tramite di una comunicazione verbale diretta, di un contenutismo esacerbato, di quella che tempo addietro un altro pensatore, Jean-Luc Nancy, definì la “brutale trasparenza del significato”: un’arte carica di intelligenza, spesso impegnata politicamente, fin quasi a confondersi con l’attivismo politico, ma altrettanto spesso paurosamente povera di fascinazione o di quella che Han, senza alcun timore di essere dilaniato dalle Erinni del pensiero post-estetico, definisce magia. Quest’arte senza mistero, totalmente trasparente, parla alla mente senza più passare attraverso i sensi. Ci tratta da adulti, si dirà. Sì ma da adulti di un universo adulterato, dove tutto è scambio e informazione, e anche lo stupore è soltanto lo sfolgorio di una cometa che, appena apparsa, è già passata di moda.

di Byung-Chul Han è stato di recente pubblicato da Einaudi anche La società senza dolore.

Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose è uscito nel 2017 per l’editore Vita e Pensiero

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