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Di immagini e parole

In "Manifesto incerto. Con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio" (L'Orma editore) Frédéric Pajak disegna tutto quello che non può scrivere e scrive quello che non può disegnare aggiungendo un nuovo (bellissimo) capitolo all'arte del graphic novel

8 Dic , 2020

Di immagini e parole

“Sono bambino, avrò circa dieci anni. Sogno un libro, fatto di parole e immagini. Scene d’avventura, ricordi sparsi, aforismi, fantasmi, eroi dimenticati, alberi, la furia del mare.” Sono le primissime parole di una premessa che Frédéric Pajak scrive al primo volume del suo Manifesto incerto. Con Walter Benjamin sognatore sprofondato nel paesaggio che L’orma editore ha fatto conoscere al pubblico italiano nella traduzione di Nicolò Petruzella. Dicono tutto quello che c’è da sapere di un’impresa letteraria che ha affascinato i lettori di mezzo mondo e alla quale non basta la definizione che ne ha dato il Nouvel Observateur: Pajak non ha inventato il saggio grafico, o allora bisognerà decidersi a ridefinire questo termine, riportandolo nell’ambito della letteratura, dove inizialmente stava, e togliendo ad esso qualunque pretesa argomentativa o scientifica. Ma anche in quel caso, ci sarà sempre qualcosa che eccede nelle pagine di Manifesto incerto dove Pajak disegna tutto quello che non può essere scritto, con una densità del chiaroscuro che ricorda le ombre ispessite di alcuni grandi maestri della narrazione grafica, come l’italiano Dino Battaglia e l’argentino Alberto Breccia, e scrive quello che non può essere disegnato, mantenendo tra le due dimensioni un legame precario, sognante, che non ha niente di didascalico. Ma soprattutto Manifesto incerto ha la forza avventurosa dei sogni che si sono eclissati nell’infanzia, apparentemente uccisi dalle circostanze sfavorevoli – e quelle della vita dello scrittore e disegnatore francese, classe 1955, sembrano uscite da un romanzo di Dickens spostato di un secolo – per poi riaffiorare in diverse età della vita, con quell’ossessività che è tipica solo delle grandi vocazioni: è una promessa realizzata che dei sogni infantili mantiene la mancanza di confini, la fecondità fantastica, il marchio dell’avventura, Pajak ha veramente fatto il libro che voleva, plurale, composito, vagabondo, unendo tutto ciò che normalmente è separato: il diario e la biografia, il romanzo e la storia, la figura e lo sfondo. Che il suo eroe dimenticato si chiami Walter Benjamin e che oggi sia uno dei pensatori del novecento più citato in qualunque riflessione sulla modernità o sugli spazi umani, sulla violenza o sul senso della storia, non toglie un grammo di fascino a quell’essere errabondo che in alcune immagini del libro emerge a fatica dalle folle in perenne movimento degli anni trenta, voltandosi verso lo spettatore, sottolineando di colpo la propria singolarità e la propria solitudine, mentre la calca di una celebrazione fascista a Roma quasi lo sta travolgendo: lo sguardo dietro gli occhiali perso chissà dove, lui fermo nell’agitazione generale, un po’ come il famoso Angelus Novus di Paul Klee, che è il suo emblema, con lo sguardo rivolto al passato che non può contemplare perché la tempesta della storia, a cui le sue ali sono rimaste impigliate, lo chiama nel futuro. Ripreso e immerso nuovamente nel paesaggio della sua epoca, con tale intensità che alle volte si identifica con esso fino a scomparire – come nelle bellissime scene di Ibiza in cui sono soprattutto le scogliere, il mare, i contadini a parlare agli occhi – l’autore dei Passages parigini, che i bambini dell’isola spagnola chiamano non senza sprezzo el miserable, è veramente un eroe dimenticato che segue la sorte di altri sbandati, un viaggiatore senza valigia che si sposta in continuazione da un punto all’altro dell’Europa cercando di fuggire la marea nera che invece gli viene incontro; dalla sua, questo ebreo sradicato, non ha né l’accademia che lo ha rifiutato, né il movimento comunista di cui è soltanto un compagno di strada, né il sionismo, al quale non vuole aderire malgrado i reiterati inviti dell’amico Gershon Scholem a raggiungerlo in Palestina. Gode di una certa fama presso alcuni circoli intellettuali, ma di lui si sa soprattutto che scrive cose affascinanti ma quasi incomprensibili, è troppo libertario per essere un marxista ortodosso, troppo lucido per diventare un anarchico, e a parte scrivere, tradurre e leggere, non sa fare altro, in fondo è il tipico ragazzo borghese di buona famiglia che si è innamorato della classe operaia ma che dei proletari non sa nulla. “Non è né ricco né povero – scrive Pajak – ha rotto con la famiglia e tagliato i ponti con le istituzioni militari e universitarie. E’ una specie di mercenario delle lettere che vive di traduzioni e di qualche articolo di giornale. E di compravendita di libri, da buon bibliofilo qual è – un piacevole vizio che probabilmente eredita dal padre – un antiquario. I soldi, poi, li sperpera al gioco” Insomma, Walter Benjamin è quello che più tardi Hanna Arendt, una sua grande amica, definirà un paria. Ben più di una coscienza critica, Benjamin è il critico che trasforma il suo stesso sguardo in esistenza, “quella vita spezzettata, scrive ancora Frédéric Pajak, somiglia ai suoi frammenti di scrittura, che lo nascondono tanto quanto lo rivelano. Racconti brevi, appunti, saggi, teorie folgoranti, in fin dei conti, raccolti insieme, formano l’opera esistenziale di un’esistenza da romanzo.” Quel che l’autore di Manifesto incerto non dice, perché forse è inutile dirlo, è che in quei frammenti di cristallo si specchia la stessa forma del suo libro, scritto con Walter Benjamin, come dice il titolo, ma soprattutto attorno a lui, facendo ramificare i suoi paesaggi in un inimitabile romanzo personale di parole e di immagini.

Con Walter Benjamin, attorno a Walter Benjamin, dunque: e tuttavia questo primo volume di Manifesto incerto pubblicato dall’Orma nella collezione Kreuzville – speriamo che presto arrivino anche gli altri capitoli dell’opera – non è una biografia grafica del critico e pensatore tedesco di origini ebraiche. La sua figura attraversa il racconto come una sorta di fiume centrale, ma gli altri fiumi che in esso confluiscono provengono da punti diversi dello spazio e del tempo: dalla biografia dell’autore stesso, da un piccolo saggio di Samuel Beckett sulla pittura, da un viaggio nella Sicilia degli anni ottanta, dall’incontro casuale con due vecchi e inquietanti compagni di collegio… Non si può mai dire dove ci si ritroverà voltando una pagina del graphic novel di Pajak, anche se le sue suggestive scale di grigi hanno il potere di restituire un’unità ai paesaggi che si succedono, stemperando le differenze di epoca nella continuità poetica di una visione che privilegia il mare, gli alberi, i campi, un’immemoriale vita contadina che finisce col rendere solidale la Sicilia del secondo novecento con gli scorci degli anni trenta di Ibiza, isola irriconoscibile ai nostri occhi se guardata attraverso il filtro del suo mito vacanziero. Diciamo che Pajak ha una capacità quasi demoniaca di mescolare i tempi attraverso l’immagine e di far emergere nel visibile ciò che è meno scontato e meno visto, e spesso qualcosa che non è ancora stato visto, come accade nel caso di un detenuto dei campi che ci guarda sgranando gli occhi in un fotogramma che sposta in avanti il testo sottostante l’immagine, dove il racconto registra gli albori della ventata anti-semita che travolgerà l’Europa e Bagatelle per un massacro, il violento pamphlet di Louis-Ferdinand Céline, che Benjamin aveva letto senza grande sdegno, si trasforma in un presagio del futuro vero sterminio. Nella pagina accanto si vedono alcune persone che su uno sfondo nero guardano spaventate verso l’alto, come potrebbero fare gli spettatori di un film horror. Sotto si legge che le Bagatelle mettono a disagio gli stessi ammiratori di Céline, che si limitano ad abbassare lo sguardo e a farfugliare: è solo una buffonata (E chissà quante volte l’abbiamo già sentita, e quante volte la sentiremo ancora, questa battuta che liquida come “buffonate” i gesti e le parole in cui va a depositarsi il sentimento profondo di un’epoca).

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