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Un passato da dimenticare

La rimozione della memoria contagia il Sudest asiatico. In Indonesia e nelle Filippine chiudere gli occhi dei giovani serve a guadagnare consenso elettorale

7 Mar , 2024

Un passato da dimenticare

[foto di Mufid Majnun su Unsplash]

La rimozione della memoria contagia il Sudest asiatico. Chiudere gli occhi su un passato nemmeno troppo lontano può condizionare gli esisti elettorali dell’oggi. È la dinamica che si è riscontrata in due nazioni dell’area, l’Indonesia e le Filippine . In entrambe la memoria storica è stata ed è lo sfondo di vicende politiche attuali, che toccano da vicino la scelta delle élite e dei presidenti delle due democrazie, entrambe caratterizzate da un passato con dittature, nella seconda metà del Novecento. Sono nazioni che si presentano oggi simili a livello demografico, con una popolazione giovanile che costituisce una larga fascia di popolazione: in Indonesia i giovani tra 18 e 39 anni sono oltre la metà dei 275 milioni di persone. Su quasi 120 milioni di abitanti, nelle Filippine i giovani tra 18 e 35 anni sono oltre il 30% della popolazione, condizione che si riflette anche sulla composizione dell’elettorato: nell’arcipelago con capitale Manila gli elettori registrati nel 2022 erano 65 milioni, di cui 32,7 milioni di età compresa tra 18 e 30 anni; la medesima percentuale (circa la metà del totale) è composta da giovani tra gli aventi diritto di voto nelle 17.000 isole indonesiane. Il tema della rimozione della memoria, con il tentativo di falsificare un passato scomodo, riguarda soprattutto il rapporto dei giovani con la politica.

A Giacarta è ormai assodato che il presidente neoeletto è Prabowo Subianto, un candidato che, in campagna elettorale si è presentato come un’adorabile figura di nonno, con tanto di passo di danza caratteristico, una mascotte animata, sciorinando l’amore per i gatti. L’ex generale ha corteggiato con successo il voto giovanile, utilizzando TikTok, Instagram e altri social media per guadagnare consensi proprio in quella fascia di elettori. Gli utenti hanno acclamato l’ex generale definendolo “così carino” e pubblicando messaggi entusiasti. Lontano anni luce dalla figura austera del generale a capo delle milizie che torturavano gli oppositori politici al tempo della dittatura di Mohammad Suharto, Prabowo si è cimentato nella “danza delle coccole” e ha accompagnato la sua campagna con un accattivante inno, ampiamente condiviso sui social media. È vero che l’ex generale ha goduto del sostegno, cruciale secondo gli osservatori, dell’ex presidente Joko Widodo di cui, tra l’altro, ha scelto il figlio per la vicepresidenza. Ma è evidente che la sua strategia elettorale è stata attentamente progettata per ridefinirne l’immagine e attirare l’influente voto dei giovani.

Questi giovani sono anche troppo giovani per ricordare in prima persona i precedenti scandali che hanno costellato la carriera militare e politica di Prabowo o le nefandezze – abusi dei diritti umani, persecuzioni e torture – compiute dalle sue milizie squadriste ai tempi del regime. Tutti temi brillantemente elusi oggi, nonostante le voci di sparuti gruppi che hanno cercato di evidenziarli. Gli osservatori possono constatare che i giovani delle generazioni presenti si sono lasciati lusingare e si sono fidati del controverso personaggio, forse proprio perché nella società, nella politica, nei mass media si è mancato (o evitato) di porre in agenda la descrizione e il racconto di quel passato. A 25 anni dalla caduta di Suharto ben poco è rimasto del movimento studentesco che fu la forza trainante per il crollo del regime e la transizione dell’Indonesia verso la democrazia. Negli anni successivi quel movimento ha perso smalto, soppiantato da altre forze meglio equipaggiate per l’attività politica. Eppure quella “Generazione 98” è passata alla storia per l’attivismo proverbiale che ha fondato una “cultura giovanile per la democrazia” tuttora ben riconoscibile nella società indonesiana. E che avrebbe potuto e dovuto, però, almeno chiedere conto a Probowo delle sue azioni.

Va notato che i movimenti giovanili e studenteschi rappresentano una componente fondamentale nella storia della nazione. Furono loro a creare nel 1908 Budi Utomo (“Filosofia prima”), la prima organizzazione nazionalista indonesiana. Furono loro a riunirsi nei congressi della gioventù che nel 1926 e poi nel 1928 elaborarono il noto impegno dei giovani per “un Paese, una nazione, una lingua”. Durante la Seconda guerra mondiale, in seguito alla resa dell’Impero giapponese – che allora occupava l’Indonesia – il 15 agosto 1945 furono i giovani attivisti a chiedere ad Akmed Sukarno di proclamare l’indipendenza. Mezzo secolo dopo, la rivolta popolare del 1998, allora, beneficiò di slogan e azioni riemersi dalla creatività giovanile per poi coinvolgere la gente nel movimento che portò alla destituzione di Suharto. «Se c’è qualcosa che i giovani dell’Indonesia di oggi possono imparare dai movimenti giovanili della storia – ha notato Muhammad Fajar, ricercatore di scienze politiche alla Atma Jaya Catholic University of Indonesia a Giacarta, su The Conversation, contenitore web di analisi e di ricerca – è diffidare sempre delle generazioni più anziane».

Nell’altro arcipelago, per comprendere l’attuale scenario politico filippino, si deve fare un passo indietro e tornare al voto del 2016, un voto carico di forza simbolica. Le elezioni presidenziali cadevano nel 30° anniversario della fine della dittatura di Ferdinand Marcos sr. Il suo regime si concluse nel 1986 grazie a una rivoluzione popolare nonviolenta: la gente scese in strada in massa e, marciando sulla Epifanio de los Santos Avenue (EDSA), mentre l’esercito e la guardia presidenziale deposero le armi, costrinse il dittatore alla fuga. La memoria di quegli anni, però, è stata erosa giorno dopo giorno, anno dopo anno tradita, demolita e scientemente rinnegata. Basti pensare che il presidente eletto nel 2016, Rodrigo Duterte , ha disposto che la salma dell’ex dittatore filippino venisse traslata nel Cimitero degli eroi a Manila e ha disseminato i suoi discorsi di elogi verso Marcos. Anche qui sembrano assopiti nella coscienza collettiva il timore e l’allerta verso le forme di potere oppressivo e illiberale e questo accade soprattutto a causa di uno scarto generazionale. I millennials filippini, quei giovani nati a partire dalla metà degli anni Ottanta – e tantomeno quelli della Generazione Z – non hanno provato sulla loro pelle le ferite della dittatura. La memoria dei loro genitori non è bastata a nutrire gli opportuni anticorpi. I testi scolastici su cui i giovani oggi studiano sono piuttosto carenti di informazioni sull’era Marcos, e la tecno-democrazia che caratterizza la loro vita ha fatto il resto. L’intero sistema sociale e culturale ha fallito nel trasmettere alle nuove generazioni la severa e sofferta lezione che la nazione aveva imparato quasi quarant’anni fa.

Secondo gli osservatori, il voto dei millennials è risultato decisivo per la vittoria di Duterte e ha costituito una solida base del consenso poi guadagnato nel 2022 dall’attuale presidente Ferdinand Marcos jr che è il figlio del dittatore. Va ricordato che l’ingombrante presenza delle dinastie, cioè di una ristretta oligarchia che gestisce il potere, è il fattore che connota la politica e l’economia filippina e costituisce un freno alla reale democratizzazione. La società è legata a doppio filo al fenomeno del crony capitalism, il “capitalismo dei compari”, fatto di corruzione, nepotismo e clientelismo. Quel sistema di “capitalismo clientelare” non è affatto scomparso dopo la deposizione del regime di Marcos e ha continuato a controllare settori come quelli bancario, immobiliare, energetico e delle telecomunicazioni, ma anche l’industria di casinò e gioco d’azzardo. Radicato e ramificato, il potere riesce a perpetuare se stesso.

Ora l’inquilino del palazzo presidenziale di Malacanang è il rampollo Ferdinand Marcos jr, figura che richiama un passato buio, non troppo lontano ma da molti dimenticato o del tutto sconosciuto. La perdita della memoria porta, allora, a riscrivere la storia di ieri per costruire le fortune dei politici di oggi. Grazie alla presenza sui mass media e sui social media, una nuova narrazione ha propinato impunemente un revisionismo storico, che ha fatto breccia soprattutto tra i giovani. Gli anni tragici della legge marziale sono dipinti come “i migliori della storia nazionale”. Una “verità prefabbricata” l’hanno amaramente definita gli osservatori.

«Lo spirito dell’Edsa è ancora vivo? Cosa resta della rivoluzione pacifica?» si chiede oggi il giovane sociologo Jayeel Serrano Cornelio sulle colonne di Rappler, il magazine web guidato dalla Nobelper la pace Maria Ressa (e fortemente osteggiato dal potere), mentre la politica cerca di allontanare o sminuire il significato di quell’evento dalla memoria collettiva. D’altra parte oggi – rileva Cornelio citando recenti sondaggi – il 60% dei filippini ritiene che Marcos sr sia stato «un difensore dei poveri e degli oppressi». Eppure la rivoluzione del 1986 significò giustizia, solidarietà e speranza: «Lo spirito dell’Edsa non è solo la capacità pubblica di resistere. Riguarda anche la capacità delle persone di aspirare a un futuro migliore», ricorda Cornelio. E allora, oltre a ribadire l’importanza della memora – conclude – «dovremmo anche chiederci: e adesso?».

[Questo articolo è stato pubblicato sul magazine Atlante di Treccani, che si ringrazia]

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