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La notte in cui ci ritrovammo in guerra

30 anni fa nel gennaio del 1991 Filippo Landi arriva a Dhahran, in Arabia Saudita, inviato dal TG3 di Sandro Curzi. Note su quel tempo, per Lettera22

16 Gen , 2021

La notte in cui ci ritrovammo in guerra

Sono trascorsi trenta anni da quella notte tra il 16 e il 17 gennaio del 1991. Alle due e trentotto minuti del 17 gennaio i caccia bombardieri statunitensi, inglesi, ma anche italiani cominciarono a colpire. In quella prima notte, gli obiettivi erano innanzitutto  l’esercito iracheno, in Iraq e nel Kuwait occupato dall’esercito di Saddam Hussein.

 Sembrano trascorsi molti più anni di quelli che  conteggiamo. Quella guerra, la Prima Guerra del Golfo, sembra addirittura quasi dimenticata dall’opinione pubblica. Non è una colpa, ma è la conseguenza delle altre guerre, venute dopo. La più importante è stata  la Seconda Guerra del Golfo, iniziata nel marzo 2003, legata in modo indissolubile, a torto o a ragione, all’attacco terroristico alle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, e subito dopo alla guerra di invasione dell’Afghanistan nell’ottobre di quello stesso anno. 

Cosa rimane, allora, di quella Prima Guerra? All’epoca, trenta anni fa, fu definita dalla coscienza popolare, prima ancora che scoppiasse, la Guerra del Petrolio. Giusto? Sbagliato? A distanza di tempo, è corretto dire che  la coscienza popolare aveva agguantato l’essenza del conflitto.

Solo così si può comprendere la rapidità della discesa in campo degli Stati Uniti a pochi giorni dall’invasione del Kuwait. Le truppe irachene occupano il piccolo ma ricchissimo stato che si affaccia sul Golfo Persico il 2 agosto del 1990. I soldati americani, già il sette agosto, cominciano ad arrivare nel confinante stato dell’Arabia Saudita. 

La cosiddetta dottrina Carter veniva così applicata. Anni prima era stato il presidente democratico Carter ad essere umiliato in Iran. Lo Scià di Persia, alleato degli americani, era stato scacciato dalla rivolta popolare, consacrando l’Imam Khomeini alla guida del nuovo Iran. Le compagnie petrolifere americane subito scacciate dal paese. I diplomatici statunitensi presi in ostaggio a Teheran. Agli Stati Uniti non rimaneva che riflettere e ammonire: chi avesse aggredito, nel Golfo Persico, un suo alleato avrebbe messo in discussione gli interessi vitali americani e sarebbe stato combattuto anche  con le  armi.  Anni  dopo sarà un presidente repubblicano George Bush a mettere in atto quella dottrina, innanzitutto per difendere  l’alleato, il re dell’Arabia Saudita, con le sue immense riserve di petrolio, gli accordi commerciali e la politica di stabilità del prezzo del petrolio contro ogni nuova impennata, come accaduto in occasione della guerra del Kippur, che aveva provocato la crisi energetica del ’73 gelando la crescita delle economie occidentali.

Desert Shield, scudo nel deserto, è il nome che  viene  scelto da Bush, già nell’agosto del 1990, per quell’operazione militare  definita “strettamente difensiva” che viene dispiegata per difendere l’Arabia Saudita, dopo l’invasione del Kuwait.

La richiesta a Saddam Hussein di ritirarsi dal Kuwait diventa così, per gli Stati Uniti, per gli altri paesi occidentali, ed anche  per buona parte dei paesi arabi, la prova che l’Iraq non intende  trasformarsi in una potenza occupante del Medio Oriente.

Saddam Hussein rifiuterà di ritirarsi dal Kuwait. Anzi proclamerà, di fronte alle tante  richieste che  gli chiedono di fare  marcia indietro, che l’annessione del Kuwait sarà per sempre.  Aveva giustificato quell’invasione, solo pochi mesi prima,  con l’accusa al Kuwait  di rubare petrolio all’Iraq, pompando senza freno il petrolio dai giacimenti esistenti a cavallo del confine tra i due  stati. Una  controversia che  poteva essere agevolmente risolta. Come era stata rapidamente accolta, sempre  in quell’estate infuocata, la richiesta irachena  di aumentare  il prezzo del petrolio. L’Opec, l’associazione dei produttori di petrolio,  accusata da Saddam Hussein di fare  più gli interessi dei consumatori ( Stati Uniti in testa) che dei produttori ( come l’Iraq) aveva accolto la richiesta irachena. Il prezzo del petrolio sarebbe salito da 18 a 21 dollari al barile, l’Iraq avrebbe incassato in più 4 miliardi dollari l’anno. Troppo poco, fu risposto da Bagdad.

La vera motivazione delle scelte di Saddam Hussein, che sono politiche ed  economiche insieme, sono invece rivelate da una decisione paradossale da lui assunta in quegli stessi giorni. A due anni dal cessate  il fuoco e dalla fine del conflitto con l’Iran, che aveva dissanguato i due paesi, il presidente iracheno nell’agosto del 1990 rinuncia formalmente alle piccole conquiste sulla frontiera e al controllo del fiume  Shatt al-Arab, che giunge fino al Golfo persico. Saddam Hussein, che  aveva  iniziato nel lontano 1980 quel conflitto, cede i frutti dell’armistizio per avere la  neutralità dell’Iran dopo l’invasione del Kuwait.

Questa invasione diventa così la nuova, vera carta politica che  il dittatore iracheno gioca innanzitutto all’interno del paese, per rinsaldare un prestigio politico segnato dalle conseguenze della lunga guerra. Nel contempo, il Rais vede nel Kuwait il ricco bottino, fornito dalle sue riserve petrolifere,  da conquistare facilmente.

Se il calcolo sui tempi della conquista e sui costi immediati  dell’invasione si rivelarono esatti (solo poche ore furono necessarie all’esercito iracheno per completare l’operazione senza perdite tra le sue fila), disastrosa fu invece la gestione del post-invasione.

Un esempio, il più eclatante, rimane il blocco degli stranieri, più di diecimila, all’interno dell’Iraq dopo l’invasione del Kuwait. Obiettivo: farne degli scudi umani per dissuadere gli americani ed i loro alleati dal colpire luoghi e persone in Iraq. Lo sdegno internazionale è così grande e travolgente, che  lo stesso Saddam Hussein è costretto a tenerne conto. Prima vengono liberati i cittadini asiatici ed arabi, poi le donne ed i bambini occidentali, infine nel dicembre del 1990 anche  gli uomini occidentali. 

Sul fronte politico e diplomatico, l’isolamento iracheno si accresce lentamente ma  in modo inesorabile. Solo due leader arabi, il libico Gheddafi ed il palestinese Arafat, si smarcano dalla condanna dell’Iraq per l’invasione del Kuwait. Fanno proprie le argomentazioni del rais iracheno, compresa l’argomentazione che il Kuwait sia uno stato creato artificialmente dai colonialisti inglesi e che  il suo territorio appartenga  invece geograficamente e storicamente all’Iraq. Dimenticando di dire, ovviamente, che anche l’Iraq aveva poi riconosciuto l’autonomia del Kuwait.

I palestinesi, finito il conflitto, già nel marzo del 1991, pagheranno un prezzo altissimo per le scelte politiche di Arafat. Centinaia di migliaia di palestinesi esuli in Kuwait e radicati nella sua società abbandonarono in massa il paese appena liberato, per timore di rappresaglie da parte dei governanti kuwaitiani tornati al potere.

L’Iraq dovette così fronteggiare politicamente, prima ancora che militarmente una coalizione di paesi arabi ostili, che  andava dall’Egitto alla Siria, all’Arabia Saudita. Un’ostilità delle classi dirigenti arabe che  non era condivisa a livello popolare. Manifestazioni pro Saddam Hussein furono vietate e represse in molte città mediorientali. Era il segnale di un malessere profondo e  di una  frustrazione diffusa, che trovavano in Saddam Hussein  il nuovo simbolo di una rivolta anti americana, anti occidentale ed anti classi dirigenti arabe, che non si vedeva dai tempi della rivoluzione iraniana, alla fine degli anni settanta.

Di quella frustrazione, che era presente nelle popolazioni panarabe, una componente era anche la politica filo-israeliana delle diverse amministrazioni americane, che aveva relegato in un limbo le richieste e le aspirazioni dei palestinesi. Saddam Hussein, come tutti gli altri leader arabi, ne  era consapevole. Cercò, di conseguenza, di allargare e motivare  il consenso popolare, al di là dei confini iracheni, facendosi paladino prima verbalmente, poi militarmente della lotta contro Israele. I temuti missili iracheni, gli Scud, furono lanciati sin all’indomani dell’attacco aereo alleato del 17 gennaio anche  contro Israele. Nessuno dei missili conteneva testate chimiche, che  rappresentavano in Arabia Saudita come  in Israele la preoccupazione più grande.  Questi missili, sfuggiti ai bombardamenti alleati, non cambiarono il corso della guerra, neppure l’unico missile che, cadendo su una  caserma saudita a Dhahran, provocò la morte di 28 ufficiali e soldati. 

Soprattutto, i missili caduti su Israele non provocarono nessuna reazione o sollevazione  popolare filo irachena né tra  i palestinesi né tra  gli arabi in altri paesi. Crollava così il tentativo velleitario di trasformare gli armamenti in simboli di riscatto politico, sotto la guida del rais iracheno.

Al di fuori dei confini iracheni  la percezione che  la  guerra poteva essere evitata rimase forte per molti mesi.  Fin quasi alla  vigilia dei bombardamenti alleati. Troppo grande sembrava la sproporzione delle forze in campo.  Appariva anche ragionevole, se non facile, un’intesa fondata sul ritiro iracheno ed una  qualche  compensazione economica a Saddam Hussein.

Coloro che  invece usarono consapevolmente il trascorrere del tempo, in parallelo con gli sforzi diplomatici finalizzati ad una  intesa, furono i comandanti militari americani. A sedici anni dalla caduta di Saigon in mano ai Vietcong, che  segnò la  fine della  guerra in Vietnam con la sconfitta americana e dei loro alleati sudvietnamiti, la volontà di non ripetere gli errori del passato e di prepararsi nel migliore dei modi cominciò a scandire i giorni fino all’inizio dl conflitto. Due furono le linee guida: la  prima faceva della superiorità numerica e tecnologica da mettere in campo la ragione dell’attesa da frapporre all’inizio di ogni attacco. La seconda era di accompagnare l’attesa e poi il conflitto con un sapiente uso del rapporto con i giornalisti, americani in primo luogo, ma anche del resto del mondo che  avrebbero seguito il conflitto in tutte le sue  fasi, e da tutti i luoghi possibili. Restringere quei luoghi e controllare le fonti  di immagini e notizie, furono questi gli impegni assunti dai comunicatori ufficiali, che  avevano studiato a lungo quanto accaduto nella guerra del Vietnam, dove la componente mediatica divenne via via sempre più importante e decisiva per le scelte dei politici.

La notte tra  il 16 e il 17 gennaio iniziarono, dunque, i bombardamenti aerei. Proseguirono più a lungo del preventivato. La resa di Saddam Hussein infatti non giunse, nonostante  la  valanga di fuoco che  dai cieli si abbattè sull’Iraq.   L’attacco terrestre divenne  così indispensabile per concludere un conflitto che  ormai aveva superato il mese dal suo inizio. Il 24 febbraio i primi soldati francesi, della Legione straniera, attraversarono il confine tra Arabia Saudita ed Iraq. Poi fu la  volta degli inglesi ed ovviamente degli americani. Una manciata di giorni ed il conflitto era finito. Gli iracheni si erano ritirati dal Kuwait. Saddam Hussein poteva rimanere alla guida dell’Iraq.

 Le truppe irachene in Kuwait già il 26 febbraio avevano iniziato la  ritirata verso l’Iraq ed avevano imboccato l’autostrada verso la città di Bassora. Lasciavano alle spalle centinaia di pozzi di petrolio dati alle fiamme, su ordine dello stesso Saddam Hussein. Furono necessari mesi per spegnere tutti quegli incendi e cominciare ad invertire quella catastrofe ambientale.  Su quell’autostrada per Bassora, invece, molti furono condannati a pagare con la morte  le  proprie e le altrui colpe. Quell’autostrada si trasformò infatti nell’autostrada della morte, come noi giornalisti la definimmo.  Quando arrivammo, tra le  carcasse di oltre mille e quattrocento carri armati, camion militari e auto civili rubate in Kuwait  dai militari, il fumo degli incendi provocati dai bombardamenti si era diradato, i corpi degli uccisi in gran parte portati via, mentre qualche corpo  ancora attendeva la sua sepoltura tra cassette di munizioni e bottini di guerra che  mai sarebbero arrivati in Iraq. 

A qualche chilometro di distanza da quel luogo dove tutto, anche l’odore, sapeva di morte, si incontravano i primi palestinesi , donne, bambini e uomini, che  in auto stracariche lasciavano il Kuwait per raggiungere l’Iraq, loro nuovo esilio.

Il loro destino, per uno squarcio di tempo che attraversò le distrazioni della storia, interessò una volta finito il conflitto anche  i politici, americani in testa, che  avevano fatto parte della coalizione anti Saddam Hussein. La percezione era che  la  vittoria poteva essere completa solo se si fosse affrontata la frustrazione e la rabbia delle masse arabe. In primo luogo, affrontando intorno ad un tavolo negoziale anche  il conflitto tra israeliani e palestinesi.

Si racconta che  il premier israeliano Ytzhak Shamir che  non voleva partecipare a quella  che  poi divenne la  conferenza di Madrid, programmata per la fine di ottobre del 1991, fu minacciato direttamente dal presidente americano Bush. In presenza di un rifiuto israeliano, gli Stati Uniti avrebbero congelato gli aiuti economici e militari ad Israele. La minaccia fu efficace. La Conferenza di Madrid poté iniziare. Un fragile accordo arrivò qualche  anno dopo, ma sfiorì presto. Troppo presto.

Nel gennaio del 1991 Filippo Landi è arrivato a Dhahran, in Arabia Saudita, inviato dal TG3, il telegiornale RAI allora diretto da Sandro Curzi. Per quaranta giorni ha seguito dall’Arabia Saudita l’offensiva della coalizione internazionale antiirachena,  della campagna di bombardamenti e poi dell’avanzata di terra alla fine di febbraio del 1991 con la liberazione del Kuwait. 

Giornalista televisivo, Filippo Landi è stato ex inviato speciale per il TG3 e poi per il TG1 RAI in Albania e nei Balcani. Per quindici anni corrispondente RAI per il Medio Oriente al Cairo e successivamente a Gerusalemme.

Ha un blog, https://dalvostroinviato.it

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