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La lezione di Gino Strada

Sicurezza non è proiettare potere militare, ma prendersi cura degli altri. Al via il Festival di Emergency a Reggio Emilia

5 Set , 2021

La lezione di Gino Strada

Si apre oggi a Reggio Emilia il Festival di Emergency, l’associazione senza scopro di lucro fondata nel 1994 che offre cure mediche gratuite e di qualità. Fino al 5 settembre, dibattiti e incontri intorno a una parola-chiave: la cura. La cura come diritto fondamentale, come pratica, come valore. E come prisma attraverso cui interrogarci sul rapporto tra ambiente e salute, tra individuo e collettività, sull’importanza di un sistema sanitario nazionale pubblico, sui costi della guerra e sui benefici della pace, sulle ragioni per cui gli uomini fanno la guerra sul corpo delle donne. Il programma elenca tanti e tante ospiti, dalla presidente di Emergency Rossella Miccio alla regista afghana Sahraa Karimi, fino a poche settimane fa a Kabul, poi costretta alla fuga e all’esilio, di cui parlerà anche domani alla Mostra del Cinema di Venezia; dalla giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi all’attore e drammaturgo Marco Paolini, che salirà sul palco insieme a Telmo Pievani, domenica 5 settembre.

L’elenco è lungo. E presenta una particolarità. C’è un nome che, pur non essendo stampato nero su bianco, ritorna sottotraccia, a legare nomi e temi, domande e tentativi di risposta. Quello di Gino Strada, il fondatore di Emergency scomparso il 13 agosto, poche ore prima che il suo amato Afghanistan finisse sotto il controllo dei Talebani. Con i Talebani aveva avuto a che fare, Gino Strada. Parlava con tutti, pur di assicurare cure gratuite e di qualità a chi ne aveva bisogno. A partire da convinzioni profonde, tra cui l’assoluta neutralità rispetto ai pazienti. Bianchi, rossi, neri, gialli, barbuti, sbarbati o con barbe finte. Tutti e tutte vanno curati e curate. Gratuitamente. Un’etica del fare che mirava alla concretezza. Ed evitava l’atteggiamento missionario che porta al “meglio che niente”. Ci siamo sentiti poche settimane prima che morisse. Letti tutti i suoi libri – Pappagalli verdi, Buskashi e l’ultimo, Zona rossa, scritto con l’amico fraterno ed ex compagno di scuola al Liceo Carducci di Milano Roberto Satolli – non c’era ancora mai stata occasione di incontrarci. La chiacchierata-intervista serviva a completare un lavoro commissionato da Emergency, svolto in Afghanistan nei tre ospedali principali dell’organizzazione ad Anabah (nel Panjshir), Kabul e a Lashkargah. L’intervista aveva virato subito sul personale. I ricordi, gli aneddoti, le spinte che portano un uomo a dedicarsi alla cura degli altri, assumendosi la responsabilità che ne deriva, le aspettative, le richieste. L’esigenza di non derogare mai dai principi di base, mantenendo la capacità di produrre trasformazioni concrete, tutti i giorni. Non solo curando gli altri, ma “curando” il modo che abbiamo di vedere gli altri, di considerarli tali, alieni perché diversi. La medicina dentro il suo contesto, la comunità in cui si opera, la società, le condizioni economiche, politiche e culturali. Una lezione che vale anche per il giornalismo.

Alcuni ricordi erano legati a personaggi e incontri noti, come il comandante Massud, “il leone del Panjshir”, la valle in queste ore accerchiata dai Talebani, pronti a insediare un nuovo governo conquistato con la violenza. Altri a occasioni meno note, come quando i colleghi afghani del “dottor Gino” riuscirono a convincere un pezzo grosso dei Talebani che quel chirurgo lì era meglio lasciarlo stare, perché vantava credenziali importanti nella Fratellanza musulmana. Sedimentati nei ricordi c’erano decenni di impegno in un Paese in cui ha prevalso troppo a lungo la guerra, che è incuria per definizione. La guerra afghana ha provocato decine di migliaia di vittime, vite spezzate e famiglie distrutte. Causate dai Talebani, oggi al potere. Dall’esercito afghano, oggi dissolto. Dalle forze straniere, oggi a casa. Prendersi cura dei familiari di quelle vittime vuol dire offrirgli una sponda, fare in modo che le richieste di giustizia non rimangano inevase, occultate nell’impunità. Ma anche tornare a ripetere, come faceva Gino Strada, che la vera sicurezza non sta nel proiettare potere militare, ma nel prendersi cura degli altri, qui e altrove.

Questo articolo è uscito sul manifesto il 3 settembre

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