Cerca

Il battito della farfalla. Da Washington a Ryadh

Analisi - La fine della presidenza Trump ha già inciso sulla Penisola Arabica. I sauditi chiudono la crisi con il Qatar

10 Gen , 2021

Il battito della farfalla. Da Washington a Ryadh

Non ci sono solo ‘ufficiali e soldati semplici’ ad abbandonare la nave del ‘comandante’ Trump che affonda. A saltare dal Titanic sono in tanti, dentro e fuori i confini statunitensi. Non ci sono, insomma, solo i giganti dei social media che prendono le distanze dal presidente che aizza le masse ad assaltare Capitol Hill, e chiudono gli account di Trump al fotofinish dopo averli ospitati per anni. Né ci sono solo prestigiose corporate editoriali che cassano libri ormai scomodi, come ha fatto Simon&Schuster con uno dei giovani e ‘promettenti’ protagonisti del trumpismo, il senatore del Missouri Josh Hawley, considerato uno degli irriducibili dei falsi dati sulle elezioni presidenziali del novembre 2020.

Il battito della farfalla a Washington ha ripercussioni internazionali già importanti, ora, prima dell’insediamento del presidente eletto Joe Biden. Nella penisola arabica, per esempio, dove il negoziato sul caso-Qatar ha avuto un’accelerazione inattesa e un inatteso lieto fine (almeno per il momento).

Ricapitoliamo i fatti, tutti all’interno del periodo di presidenza Trump. Quattro anni fa, era sempre di gennaio, l’appena insediato Donald J. Trump firma un atto destinato a far insorgere dall’indignazione una buona porzione del mondo. Firma, cioè, il divieto d’ingresso negli Stati Uniti per 90 giorni ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana, sospende a tempo indefinito l’ingresso ai rifugiati siriani e per 120 giorni ai rifugiati in generale. È il cosiddetto “muslim ban”, l’intervento a gamba tesa, islamofobo e razzista, ispirato da Steve Bannon, uno che avrebbe voluto essere l’eminenza grigia della destra xenofoba per Trump e che, invece,  non sarebbe durato neanche un anno alla Casa Bianca.

Il “muslim ban” segna l’inizio di una presidenza statunitense che ha alcuni obiettivi chiari, quando si parla di Medio Oriente. Il primo e il più importante: rompere l’accordo sul nucleare con l’Iran concordato da Obama. Pe raggiungere l’obiettivo, quale miglior modo se non quello di sostenere e rafforzare le autocrazie del Golfo? 

A maggio del 2017 Trump va in visita in Arabia Saudita. Una visita che ha un forte profumo di dollari. Nella fattispecie, un accordo militare da 350 miliardi di dollari in dieci anni, di cui 110 subito disponibili. A lato, ci sono altri miliardi, questa volta accordi tra privati per sostenere un paese, l’Arabia Saudita, che ha fretta di smarcarsi dal petrolio. La visita rimane famosa per quella foto – inquietante e scenografica – in cui Donald Trump, il re saudita Salman  e il presidente egiziano Abdelfattah al Sisi poggiano le loro mani su una sfera illuminata. Le loro mani sul mondo? Le interpretazioni furono svariate: chiunque ha trovato in quel gesto eclatante ciò che voleva leggerci. 

Una cosa è certa. Quella singolare “santa alleanza” versione Terzo Millennio trova la sua immediata applicazione appena due settimane dopo. Il 5 giugno 2017. Una data che, in Medio Oriente, avrebbe avuto tutto un altro sapore, se non fosse stato per quello che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto decidono a sorpresa. Il boicottaggio del Qatar, proprio in un giorno molto particolare per l’intera regione: il 50esimo anniversario della guerra dei Sei Giorni e della conquista di Gerusalemme est, Cisgiordania, Gaza e le alture siriane del Golan da parte di Israele. 

L’attenzione, invece, si sposta sulla penisola arabica. Il Qatar viene isolato. Chiusa la frontiera con l’Arabia Saudita, l’unico accesso via terra. Chiuso lo spazio aereo sull’Arabia Saudita per i velivoli qatarini. Stop alle derrate e alle merci. Il Qatar si trova da un momento all’altro chiuso, isolato. Con quale motivazione? Il Qatar deve, dicono i paesi che lo boicottano, aderire a ben 13 richieste. Tra queste, le principali hanno un preciso sapore politico: togliere dalle mani di Doha la capacità di incidere sulla politica regionale. Raffreddare i rapporti con l’Iran, non dare più ospitalità ai membri della Fratellanza Musulmana, chiudere Al Jazeera, da sempre invisa a tutti o quasi i regimi arabi. L’affondo saudita ha anche un altro sapore, quello di tentare il colpo del secolo e spingere per un cambio al vertice del potere a Doha.

Qual è il ruolo di Washington nella crisi del Golfo? Apparentemente nessuno, perché né il segretario di Stato Rex Tillerson né il segretario alla difesa James Mattis vengono avvisati in anticipo delle intenzioni di Ryadh e dei suoi alleati. Del blocco del Qatar sanno, invece, due persone a lato della politica internazionale statunitense. Uno, Steve Bannon, prova ad accreditarsi, nei mesi successivi, come lo stratega dietro le quinte della mossa che rischia di far saltare i sottili equilibri dell’area. L’altro, Jared Kushner, il genero di Trump e allora in ascesa come l’uomo della presidenza sulle questioni mediorientali, sa della decisione di Ryadh prima dei ministri americani. E’ l’inizio, per Kushner, della sua presenza in tutti i rivolgimenti che fino a pochi giorni fa hanno, a loro modo, cambiato la faccia del Medio Oriente, dal boicottaggio al Qatar sino agli accordi di Abramo e alla normalizzazione dei rapporti di alcuni paesi arabi con Israele. 

La strategia di Kushner, come si è visto sin dai  primi atti, ha il suo perno proprio in Arabia Saudita, il più autocratico e teocratico degli Stati arabi, il campione della controrivoluzione che ha rimesso in sella alcuni regimi (leggi: soprattutto quello egiziano) e non ha perso occasione per cercare di spegnere e, in ogni caso, contrastare i movimenti di riforma politica presenti in tutta la regione araba.

Una linea verticistica, a tavolino, quella di Jared Kushner e della famiglia Trump. Di stampo neocoloniale e senza alcuna aderenza alla realtà politica e sociale dell’area. 

Dunque, quale miglior modo per iniziare a erodere l’accordo obamiano sul nucleare iraniano se non colpendo sul fianco sud-occidentale di Teheran? La crisi del Golfo è la prima pesante stoccata. Che, però, fallisce quasi subito. Il Qatar riesce a non soccombere. Sfrutta il fatto di avere, sul suo territorio, le truppe americane. Gli Stati Uniti hanno infatti in Qatar la più importante base aerea del Medio Oriente: 11 mila soldati di stanza nella base di Al Udeid, alle porte di Doha. Dall’altra parte l’Iran promette al Qatar di far arrivare le derrate alimentari via mare. Al Jazeera continua a trasmettere e a rimanere un pungolo nel fianco del fronte del boicottaggio, specialmente sui dossier dell’Egitto e dello Yemen. Doha consolida, poi, il rapporto con la Turchia, che manderà anche i suoi soldati in Qatar. E poi parte la controffensiva sul piano giudiziario: il fronte anti-Qatar viene chiamato di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a rispondere di un boicottaggio illegale e, nel corso degli anni, subisce almeno due pesanti sconfitte che costeranno miliardi di dollari di compensazioni. Compensazioni, a dire il vero, a cui il Qatar dovrebbe ora rinunciare per sancire la fine della crisi.

Il tentativo saudita si trasforma con l’andare del tempo in una vera e propria debacle diplomatica, anzitutto per il nuovo protagonista di Ryadh, il principe ereditario Mohammed bin Salman. Tre anni e mezzo di boicottaggio non sono serviti a nulla, se non – adesso – a peggiorare l’immagine dell’Arabia Saudita negli Stati Uniti. Ryadh si è infatti schiacciata, per la prima volta nella storia dei rapporti bilaterali, sulla linea della presidenza Trump, dopo un lungo percorso in cui sia i repubblicani sia i democratici statunitensi si sono turati il naso di fronte alle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita per conservare il proprio ruolo nella penisola arabica. 

La vittoria di Joe Biden, insomma, ha messo il regime saudita in un cul-de-sac da cui deve immediatamente tirarsi fuori. L’immagine di Ryadh, e soprattutto la politica perseguita da MBS, come nei circoli internazionali è conosciuto l’uomo in ascesa, Mohammed Bin Salman, crea molti mal di pancia, a Washington. Nessuno ha dimenticato il rapimento, tortura e uccisione con modalità macabre di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, la cui pesante ombra oscura ancora MBs, accusato di essere il mandante di un assassinio efferato e delle minacce ai dissidenti sauditi. Khashoggi, non va dimenticato, aveva trovato negli Stati Uniti un rifugio e un’arena in cui esprimersi. La questione dei diritti, e dei diritti di genere nello specifico, in Arabia Saudita non sono più cose di contorno, soprammobili da tirar fuori quando serve premere sul proprio interlocutore: sono diventati oggetto di discussione fin dentro il Congresso, soprattutto per la presenza di deputate di nuovo tipo a Capitol Hill. 

Risultato: grazie alla mediazione del Kuwait, in pochi giorni la crisi che aveva segnato per tre anni e mezzo gli equilibri del Golfo si è risolta. O almeno, l’Arabia Saudita ha intenzione di risolverla, mentre Bahrein, Egitto ed Emirati hanno già mostrato la propria insofferenza. I fatti, comunque, ci sono già e sono eclatanti. Aperta la frontiera di terra, solo pochi giorni fa. Invitato l’emiro del Qatar ad Al Ula, in Arabia Saudita, per partecipare di nuovo ai lavori del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Accolto con tutti gli onori l’emiro qatarino, che Mohammed bin Salman ha platealmente abbracciato (entrambi muniti di mascherina, beninteso) davanti alla scaletta dell’aereo, per indicare che lo scontro è finito. E a sancire tutto, Jared Kushner, volato per l’occasione dagli Stati Uniti, all’indomani della rivelazione della pressione esercitata da suo suocero sul segretario di Stato della Georgia, Raffesberger, con lo scoop di una registrazione resa pubblica su tutti i canali d’informazione nazionali e internazionali. Al Jazeera compresa.

Poca cosa, comunque, la fine di questa crisi del Golfo. Perché i convitati di pietra dell’area non si sono mossi. Né la guerra in Yemen, provocata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che continuano la loro attività militare senza porsi la questione del costo in termini di vittime civili e di disastro umanitario. E poi la madre di tutte le questioni: l’Iran e la questione nucleare. Rispetto a questi due nodi, i cosiddetti accordi di Abramo impallidiscono: nessuna normalizzazione (dall’alto) con Israele può incidere più di tanto nel dispiegarsi di due crisi che segnano pesantemente il presente e il futuro della regione. E la diplomazia di Joe Biden non è detto che si accontenti di un risultato di facciata come la chiusura della crisi tra Ryadh e Doha. Quella crisi è iniziata e si è conclusa all’interno della presidenza Trump. Il 20 gennaio si cambia comunque pagina.

Richiedi la rivista Lettera22