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I tetti pacifisti afghani

I Talebani continuano l'offensiva sui capoluoghi di provincia, ma le città si ribellano al grido di "Allah Akbar". La più importante mobilitazione della società dai tempi delle “marce per la pace”.

5 Ago , 2021

I tetti pacifisti afghani

I Talebani continuano l’offensiva militare su alcuni capoluoghi di provincia, specie a Lashkargah, nella provincia meridionale dell’Helmand, ma le città si ribellano al grido di “Allah Akbar”, “Dio è grande”. L’iniziativa è partita tre notti fa a Herat, dopo che le forze speciali ne avevano sventato la conquista. Dai tetti delle case, di sera, si sono rincorse le invocazioni: “Allah Akbar, Allah Akbar, Allah Akbar”. Per lunghi minuti le voci dei residenti, bambini e adulti, uomini e donne, si sono accavallate. Invocano aiuto e protezione, ma allo stesso tempo protestano: contro i Talebani. La protesta ieri si è diffusa in molte altre città, fino a diventare la più importante mobilitazione della società dai tempi delle “marce per la pace”.

Le voci non si sono però alzate a Lashkargah. I civili sono intrappolati da giorni nelle loro abitazioni. Pensano a salvarsi. Si combatte dentro la città, “a poche centinaia di metri” dal nostro ospedale, riferisce il personale di Emergency. Anche ieri gli Stati Uniti hanno bombardato postazioni e depositi dei Talebani nella periferia di Lashkargah. I bombardamenti sono uno dei pochi mezzi a disposizione per frenare l’avanzata talebana. Ma causano vittime civili e sono una risorsa limitata. Soprattutto dopo il 31 agosto, data entro la quale anche l’ultimo soldato sarà rientrato negli Stati Uniti. Cosa accadrà dopo, quanto e come Washington vorrà e potrà controllare dal cielo l’avanzata territoriale dei Talebani è tutto da vedere. Per ora si guadagna tempo per permettere alle forze di sicurezza e al governo di riprendere il controllo della situazione. Il presidente Ashraf Ghani in un discorso alle Camere riunite del Parlamento ha detto che entro sei mesi la situazione tornerà stabile. Per poi criticare la “scelta improvvisa” di Washington sul ritiro.

Ieri è stata diffusa la notizia che Mawlawi Talib, uno dei comandanti Talebani che coordinano l’assalto a Lashkargah, sarebbe tra i 5.000 prigionieri rilasciati dal governo nel 2020. L’accordo bilaterale tra Washington e i Talebani firmato a Dona nel febbraio 2020 prevedeva il rilascio dei detenuti. Kabul non era parte di quell’accordo, ma il presidente Ghani, dopo aver tentato a lungo di resistere, ha ceduto alle pressioni americane. Gli era stato assicurato che quei detenuti non sarebbero tornati sul campo di battaglia e che il loro rilascio avrebbe favorito il negoziato con i Talebani. Il dialogo intra-afghano è cominciato nel settembre 2020, ma non ha prodotto nulla di concreto. E parte di quei detenuti ora combattono le forze governative.

I Talebani hanno rivendicato anche l’autobomba di ieri contro la residenza di Kabul del ministro della Difesa, Bismillah Khan, antagonista di lungo corso. L’attentato ha causato almeno 8 morti. Poco prima, nella casa del ministro c’era anche Ahmad Masud, figlio del “leone del Panjshir” e uno dei politici che da mesi chiama alla mobilitazione nazionale per una “seconda resistenza”.

L’offensiva per la conquista dei capoluoghi di provincia prosegue anche al nord. Ieri i Talebani hanno cinto d’assedio la città di Shebergan, nella provincia di Jowzyan, feudo del maresciallo Dostum. Da mesi in Turchia, nelle scorse ore si sono moltiplicate le voci su un suo possibile rientro. Mira a imitare le gesta di un altro ex signore della guerra, Ismail Khan, che ha mobilitato uomini e mezzi per aiutare le forze di sicurezza a resistere all’assalto dei Talebani nella città di Herat. Ma Dostum potrebbe essere meno fortunato: distretti e province settentrionali sono caduti come birilli, nelle scorse settimane. Il suo intervento, sempre che arrivi, potrebbe essere tardivo.

L’offensiva militare continua, ma la leadership talebana continua a dirsi pronta al negoziato. L’inviato speciale Usa Zalmay Khalilzad, artefice dell’accordo di Doha, ammonisce: se arrivano al potere con la forza, quello dei Talebani sarà un governo pariah. L’inviato dell’Unione europea minaccia il taglio dei fondi. Ma più passa il tempo, più territorio conquistano, maggiori saranno le loro richieste. Ora non si accontentano più della metà del potere. Pensano di avere diritto al 70-80 per cento. Così sostiene tra gli altri l’ex capo dei servizi segreti e candidato alla presidenza, Rahmatullah Nabil. Lo conferma indirettamente anche Khalilzad.

I Talebani pensano di usare anche con gli afghani la strategia adottata con gli americani: usare la leva militare per ottenere concessioni politiche. Ma potrebbero aver fatto male i conti, dimenticando che nel Paese non ci sono solo territori da conquistare, ma anche una popolazione civile. Determinata, soprattutto nelle città, a non farsi soggiogare o sottomettere. Le invocazioni serali, gli “Allah Akbar” che si rincorrono sui tetti e per le strade, dove giovani e adulti indossano la bandiera nazionale, sono un segnale inequivocabile, anche se forse effimero: sul piano militare i Talebani sono forti, ma debolissimi su quello sociale. Con la loro insistenza sull’opzione militare, con la loro violenza che, torna a denuncire Human Rights Watch, si fa spesso rappresaglia, stanno facendo un favore al nemico principale, il governo di Kabul. Non gode di grande legittimità agli occhi della popolazione, ma si sta rafforzando grazie alla crescente opposizione ai Talebani. Che ieri hanno reso pubblico un comunicato in cui dicono che quegli “Allah Akbar” sono falsi. Al contrario, servono a dire che c’è un altro Islam oltre a quello con cui i Talebani giustificano il loro jihad. Sempre meno comprensibile ora che le truppe straniere si ritirano.

Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 5 agosto

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