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Fuori le ragazze afghane dalle università

La decisione di chiudere le università alle studentesse segna un’ulteriore tappa nella transizione dei Talebani dalla lotta armata al potere e indebolisce l'Emirato islamico.

4 Gen , 2023

Fuori le ragazze afghane dalle università

“Siete informati di dover sospendere l’educazione delle ragazze fino a nuovo ordine”. Con queste parole, in una lettera ufficiale indirizzata a tutte le università pubbliche e private ieri i Talebani hanno annunciato l’interruzione dello studio per le studentesse. Il decreto porta la firma di Neda Mohammad Nadim, il ministro dell’Istruzione superiore, ed ha effetto immediato: sin da oggi, mercoledì. Così, in poche ore decine di migliaia di ragazze afghane vengono private del diritto allo studio, della possibilità di istruirsi e di vivere in un contesto sociale più ampio di quello domestico.

Secondo il ministro, già governatore della provincia di Kabul, la decisione è avvenuta dopo che “i più importanti studiosi del Paese hanno valutato il curriculum e l’ambiente universitario dal punto di vista della sharia, e dopo che io stesso ho presentato il loro rapporto, con alcuni suggerimenti, alla leadership dell’Emirato”, ad Haibatullah Akhundzada, la guida dei fedeli. “Se Dio vuole”, prosegue il ministro, presto i Talebani riusciranno a far combaciare il diritto allo studio con “un ambiente rispettoso della shariah”. C’è da dubitarne, a giudicare dai precedenti: le scuole superiori femminili sono chiuse da 457 giorni e l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo a negare loro l’istruzione. Anche in quel caso le autorità di fatto hanno più volte ripetuto che si trattasse di una sospensione, non di una vera chiusura, e che “presto” sarebbero state riaperte. Le adolescenti afghane continuano però ad aspettare, tranne rari casi.

Le loro sorelle più grandi si preparano a una nuova vita, 3 mesi dopo aver sostenuto gli esami di ingresso all’università, potendo scegliere un ventaglio di facoltà ridotto rispetto al passato. Le voci sull’eventualità della chiusura circolavano da settimane: l’idea che le università siano incubatori di proteste preoccupa i Talebani, che non hanno esitato a usare le maniere forti anche per controllare i dormitori o, in alcuni casi, impedire che le ragazze potesse uscirne, in occasione di proteste o manifestazioni.

La decisione segna un’ulteriore tappa nella transizione del movimento dei Talebani da gruppo di lotta armato a gruppo di potere istituzionale, per quanto non riconosciuto dalla comunità internazionale. E complica ulteriormente i rapporti con gli stranieri. Perché consolida la linea dell’autarchia rivendicata nel luglio scorso dal leader supremo durante la Loya Jirga, la grande assemblea di Kabul, quando disse che “non ci saranno compromessi sulle leggi prescritte dalla sharia. Il mondo non dovrebbe interferire in Afghanistan, un Paese sovrano e indipendente”. Per poi aggiungere: “Anche se useranno la bomba atomica, non faremo neanche un passo contrario a quel che chiede Allah e stabiliremo un vero sistema islamico”.

Il vero sistema islamico dei Talebani non è però il sistema islamico auspicato dalla maggior parte degli afghani e delle afghane, che guardano al diritto allo studio, anche delle ragazze, come tale: diritto di tutte e tutti. Da qui, l’inevitabile inasprimento del conflitto sociale interno. Sul piano esterno, la decisione dei Talebani arriva proprio nel giorno in cui al Consiglio di sicurezza dell’Onu la rappresentante speciale del segretario generale, Roza Otunbayeva, ribadiva come la chiusura delle scuole avesse inasprito e compromesso i rapporti con la comunità internazionale, portando a uno stallo. E mentre Martin Griffiths, sotto-segretario per gli affari umanitari dell’Onu, ricordava come soltanto le esenzioni alle sanzioni che pesano su diversi ministri che sono sulla lista dei terroristi dell’Onu abbia fin qui permesso di evitare la catastrofe umanitaria.

Nel Paese, non mancano le proteste.

“O tutti o nessuno”. All’interno gli studenti, molti con il camice bianco. All’esterno le studentesse, con abiti lunghi e il capo coperto. Le braccia in alto, a issare cartelli con lo stesso slogan scritto a mano: “O tutti o nessuno”. È così che centinaia di studenti e studentesse della facoltà di Medicina dell’università di Nangarhar, nell’omonima provincia orientale afghana, hanno protestato contro la decisione dell’Emirato islamico di sospendere l’accesso nelle università pubbliche e private alle ragazze. A Jalalabad, capoluogo della provincia, diversi studenti sono usciti dalle aule in segno di protesta. Altri hanno fatto “da sponda” alla manifestazione delle loro colleghe, costrette a rimanere oltre il cancello di ingresso. Piccoli, importanti segnali di solidarietà tra uomini e donne si sono registrati anche altrove: la decisione del ministro dell’Istruzione superiore, Neda Mohammad Nadim, è destinata a inasprire il conflitto tra la leadership dell’Emirato e buona parte della società afghana, convinta che l’istruzione sia strumento di emancipazione, riscatto sociale, partecipazione alla vita pubblica. Anche per le donne.

Per la componente dei religiosi oltranzisti e ortodossi della leadership talebana, capace di imprimere la propria matrice al corso del secondo Emirato, le donne non devono produrre saperi, conoscenze, relazioni, cambiamenti sociali, politici, economici, ma riprodurre. Riprodurre lo status quo, fare figli, starsene a casa. Case al cui interno prendono forma dinamiche che i Talebani – per venti anni vissuti in clandestinità, preoccupati di condurre la lotta armata, orientati a sopravvivere o a conquistare militarmente territori, spesso rifugiati in Pakistan – conoscono poco. Pretendono di rappresentare l’intero popolo afghano, ma non lo conoscono. Vale soprattutto per i clerici ortodossi, che legittimano le proprie scelte attraverso il riferimento alla sharia, al diritto islamico.

L’Emirato è tale se è “veramente islamico”, ripetono la guida dei fedeli, Haibatullah Akhundzada, e i clerici che gli ruotano intorno. Ma le loro decisioni indeboliscono l’Emirato, anziché legittimarlo o rafforzarlo. La scelta di negare il diritto allo studio prima alle adolescenti, ora alle studentesse universitarie approfondisce gli attriti all’interno della leadership, tra gli ultraconservatori e quanti – anche nei ministeri di peso – ritengono che quel diritto sia già acquisito dalla società. E indebolisce ulteriormente il regime nel rapporto con la comunità internazionale.

Per una parte dei Talebani il mondo esterno conta poco, è vero. Più le cancellerie straniere criticano, condannano, chiedono revisioni e inversioni di rotta, più viene confermata l’illusione di essere sulla via giusta. La sovranità o è piena o non è tale. Contano su quell’autosufficienza che il Paese non ha mai veramente avuto. E sanno che, quanto a sanzioni, isolamento, guerra economica, peggio di così è difficile arrivare. Ma per gli altri Talebani, i cosiddetti pragmatici, diventa sempre più complicato: si tratta di far credere agli stranieri che anche loro contino qualcosa e mantenere aperti i canali di comunicazione con l’esterno, mentre il Paese affronta il secondo inverno dentro una crisi umanitaria senza precedenti. L’esterno, per i Talebani ortodossi, fa rima con interferenza, con intromissione indebita.

Di fronte all’ottusa pretesa di poter fare a meno degli altri e del mondo esterno, di fronte alla rotta autarchica impressa al nuovo Emirato, la forza per un cambiamento non può che venire dall’interno. Dalle studentesse a cui è stato negato il diritto all’istruzione. Dai colleghi che hanno manifestato con loro. Dal conflitto sociale che, anche se sotterraneo, corrode le fragili fondamenta del nuovo Emirato.

Questo articolo ne assembla due già usciti sul manifesto, che ringraziamo, il 21 e 22 dicembre 2022.

La foto è dell’autore.

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