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Diario afghano 1. La “seconda resistenza”

Nella prima puntata del suo diario afghano, il nostro Giuliano Battiston ci racconta la nascita della seconda resistenza. Vecchi mujahedin contro i Talebani

10 Giu , 2021

Diario afghano 1. La “seconda resistenza”

“Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io”. Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progretto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per covid.

È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. “Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?”.

Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel Paese. “Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra”, ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.

“Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La ‘seconda resistenza’ è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti”, ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.

Una strada di Dasht-e-Barchi, Kabul

La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. “Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A”, ci dice Ali Adili. “Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali”. Il fronte repubblicano è più diviso che mai. “Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare”. Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.

Kabul divisa, periferie in fermento.

Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. “Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim”, ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. “Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi”, si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, “o ci prenderemo la nostra vendetta”.

Alla scuola Sayed al-Shohada, i familiari delle studentesse ferite nell’attentato chiedono sostegno.

Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, “che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun”, sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. “Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa”, sostiene Jawad, che lavora in una Ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.

Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: “abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare”. Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a “restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin”. L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene “capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà”.

L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara allo Spiegel “stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli”. A Maimana, capoluogo della provincia nord-occidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.

Studentesse alla scuola Sayed al-Shohada, Kabul

Sull’Atlantic Council, Tamim Asey, già vice-ministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani “vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra”. La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.

“Ci aspettano tempi bui”, dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.

Le foto sono dell’autore dell’articolo.

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