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Cancellare il corpo malato. Quando il teatro legge le storture del mondo

Su "Hospe, -itis" di Fabio Pisano, che andrà in scena al Teatro San Ferdinando con la regia di Davide Iodice. Quando apriranno i teatri

7 Feb , 2021

Cancellare il corpo malato. Quando il teatro legge le storture del mondo

Può apparire surreale parlare di un testo teatrale che dovrebbe andare in scena tra pochi giorni, nel tempo della pandemia che ha chiuso i luoghi dello spettacolo. Lo è, nei fatti, surreale. Come surreale è questo eterno presente. 

È però necessario forzare l’immobilità imposta per cause di forza maggiore. E che cause! Una pandemia che dovevamo attenderci e alla quale non abbiamo opposto la resistenza della visionarietà e dell’analisi dei fatti e delle circostanze. Occorre darci un ritmo, deviare il fiume dell’eterno presente con le chiuse, gli ostacoli, le anse che il tempo, individuale e storico, richiede. 

E così, per obbedire all’imperativo del navigare il tempo senza lasciarsi travolgere dal “senza futuro”, mi inserisco nella serie  che Enrico Fiore, sul Corriere del Mezzogiorno, ha titolato “Il teatro che aspettiamo”. Enrico Fiore ha dedicato la prima puntata a “Hospes, -itis”, il testo drammaturgico di Fabio Pisano che verrà messo in scena con la regia di Davide Iodice al Teatro San Ferdinando, con una produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Sardegna Teatro. Verrà messo in scena, ma non nei giorni previsti dal cartellone, dal 18 febbraio, perché occorre seguire le regole.

Al testo di Fabio Pisano sono legata dai casi (felici) della vita, che offre incontri e relazioni che non erano messi in conto. Ho conosciuto Fabio Pisano a Sciacca, durante il concorso per corti teatrali “S…corticando” edizione 2013. Ero in giuria. Dirigevo allora il piccolo Teatro L’Idea di Sambuca di Sicilia, che avevo fatto emergere con fatica dalle secche della noncuranza e della mancanza di una visione culturale.

L’edizione 2013 del premio fu vinta proprio da Pisano con il suo “(S)confessioni”. La casualità di questo incontro non è un dettaglio: un giovane drammaturgo napoletano gira l’Italia (e arriva nella Sicilia meno frequentata da turismo e cultura) con un testo forte, compiutamente teatrale e allo stesso tempo figlio del suo tempo e della sua generazione, con un ritmo ascendente che non può non far riferimento a un certo tipo di cinema statunitense. “(S)confessioni” mi aveva colpito molto, anche per la splendida recitazione di Edoardo Sorgente e Ciro Giordano Zangaro.

Da allora, con Fabio abbiamo intessuto conversazioni online che durano da otto anni. Conversazioni tra persone di età, esperienze professionali, vita, e retroterra culturali molto differenti. Conversazioni a distanza, ben prima della pandemia. 

In questi anni, Fabio Pisano ha ottenuto i riconoscimenti che merita. È stato nella rosa dei finalisti del Premio Giovanni Testori edizione 2018. Ha vinto, proprio con Hospes, -itis, il Premio Hystrio Scritture di Scena 2019. 

E’ un autore estremamente curioso, Fabio Pisano. Ama scompaginare i generi, sommare gli sguardi, essere del tutto calato in realtà complesse ben oltre il territorio nazionale, curiosare nel mondo: sono tutte doti necessarie per affrontare i tempi globali di transizione.

“Hospes, -itis” si incammina perfettamente in questo solco. Al pari di “(S)confessioni” e di altri suoi testi teatrali, anche “Hospes,-itis” cala profondamente l’attualità  dentro la narrazione drammaturgica. Nessuna compromissione col reportage e con la cronaca. Tutt’altro. La realtà è assunta dallo sguardo artistico, e ne esce reinterpretata, vissuta, ricomposta.

Non era semplice. La narrazione del dolore è una sfida difficile per chi non vuole cadere nelle trappole retoriche e nel facile coinvolgimento emotivo. Il dolore della malattia, la trasformazione del fisico, la decadenza del corpo, la paura della morte, l’allontanamento del calice amaro da parte dei parenti, la solitudine estrema e ineludibile sono argomenti proibitivi. Fabio Pisano, da drammaturgo puro, ha trovato il modo, che è anche il metodo. La malattia viene espunta dal testo, donando tutto il peso della narrazione agli uomini e alle donne. La malattia non deve nascondere il malato, a cui Pisano dà tutta la dignità possibile. La malattia non è il malato. Nel carcere terminale, per i cui pazienti vige la stessa sentenza degli ergastolani, “fine pena mai”, si muovono dunque persone cui è data tutta la necessaria attenzione. Come se non dovessero morire mai. 

I sentimenti dei sani ritornano prepotenti: l’amore e la rabbia, la nostalgia… Sono sentimenti che i medici e il personale paramedico – i guardiani – hanno lasciato fuori dalla porta, per non essere inondati dal dolore degli altri, certo. Soprattutto, però, perché sudditi volontari di una burocratizzazione della vita, del decorso della malattia, e infine della morte che rende la realtà (la realtà, quella fuori dalla drammaturgia) ormai virtuale, asettica, igienizzata. Il richiamo prepotente al classico Harold Pinter è fin troppo chiaro, con la differenza che il testo di Fabio Pisano mi pare più pacificato, meno ansioso delle grandi pagine del drammaturgo britannico.

Fabio Pisano spezza la narrazione con vere e proprie finestre poetiche. Perché la poesia? A mio parere, la poesia consente di riposare, di comprendere e allo stesso tempo di uscire dalle mura del centro per malati terminali. Vola, supera le barriere. Allo stesso tempo, alla poesia – linguaggio così intimo da dover essere racchiuso in un individuo – spetta il compito del coro. Le domande, a questo punto, sarebbero tante: perché chiedere al poeta di racchiudere la chiave del testo teatrale? Perché non rendere collettiva questa interpretazione, e questa fuga dalla costrizione di una clinica di lungodegenza? Viene da pensare che la scelta di Pisano sia stata obbligata: la morte è affare intimo, l’affare più intimo, e la voce sola del poeta concentra in sé l’incontro a due, tra il moribondo e la morte.

Rileggere il suo testo, che avevo letto per la prima volta nel 2018, in quello che ora sappiamo essere il tempo che fu, è un esercizio necessario. Rende merito a quello che chiediamo, tutti noi, alla riflessione e al gesto artistico. Far emergere nel magma della realtà quei segni che rendono più chiara la direzione verso la quale andiamo, spesso correndo indifferenti verso gli ostacoli, i veri e propri muri contro i quali andremo a sbattere. E per questo sposo in pieno le note di regia che Davide Iodice ha condiviso con il pubblico sul sito del Teatro di Napoli

“Rileggo Hospes,–itis, scrive nelle sue note il regista Davide Iodice, in questo tempo distopico in cui la pandemia ci ha confinato, e al fremito che sempre la poesia provoca, si aggiunge lo scuotimento per un presente che supera ogni metafora. Di certo Fabio Pisano non poteva immaginare che quell’esperienza di malattia di cura e infine di morte, vissuta nella singolarità di una vicenda familiare, potesse diventare una condizione collettiva, planetaria: storica. Non credo potesse immaginare, nessuno poteva, il corredo luttuoso di questi giorni, la moria degli anziani nelle case di riposo; la fame d’aria”.

Non poteva immaginare ciò che ci ha travolto e cambiato, ma ha saputo guardare nelle storture di un mondo che ci aveva già avvertito della strada che avevamo smarrito. Del rispetto verso i vivi e i morti che avevamo perso. E di quella necessità di cancellare i corpi malati, rinchiudendoli dietro un muro di cemento, per non essere assaliti dai loro fantasmi.

La foto del Teatro Mercadante è di Fabio Pisano, dalla sua pagina Facebook

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