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Kabul è caduta

Dopo una clamorosa offensiva militare, i Talebani prendono il potere in Afghanistan. Fugge il presidente Ghani, come i diplomatici stranieri

15 Ago , 2021

Kabul è caduta

Kabul è caduta nelle mani dei Talebani, che tornano al potere dopo vent’anni di jihad. Cantano vittoria, celebrata nel mondo dell’islamismo radicale. Collassa il governo presieduto da Ashraf Ghani, il tecnocrate e accademico che voleva salvare un “Failed State” e che è fuggito quasi di nascosto da Kabul, dopo un frettoloso cenno di saluto dalla scaletta dell’aereo, partito da quello stesso aeroporto che poche ore dopo è stato preso d’assalto dagli afghani preoccupati del ritorno al potere degli eredi di mullah Omar.

Ghani è volato forse in Tajikistan, forse in Oman, dopo aver passato la mattinata di domenica nell’ambasciata degli Stati Uniti e dopo aver testardamente voluto condurre un gioco politico da cui è rimasto schiacciato. Ma vivo. Collassano anche tutte le istituzioni che la comunità internazionale ha sostenuto dal 2001. La rapidità dell’avanzata territoriale dei Talebani dipende più dalla debolezza istituzionale che dalla forza degli studenti coranici. Senza legittimità, corrotto, concentrato nelle mani di pochi arraffoni senza scrupoli, spesso criminali di guerra impuniti, il governo si è sciolto come neve al sole.

I Talebani prendono il potere alla vigilia dell’anniversario dell’indipendenza dell’Afghanistan dagli inglesi (1919) e del ventennale dell’11 settembre, data-evento che ha condotto al rovesciamento nel 2001 dell’Emirato islamico d’Afghanistan. I Talebani non avevano responsabilità dirette nell’attentato, ma ne hanno pagato il prezzo politico. Gli americani dopo aver bombardato dall’alto hanno costruito dal basso un’architettura politico-istituzionale che non ha mai funzionato. In primo luogo perché dipendente da Washington. Ora evacuano il personale diplomatico.

La sconfitta degli Stati Uniti e della Nato è netta quanto la vittoria dei Talebani, a dispetto delle dichiarazioni di Joe Biden, ultimo presidente in ordine di tempo a dover gestire una guerra che non andava fatta. E che ha inaugurato il più importante paradigma della politica estera statunitense dai tempi della Guerra fredda: la war on terror. Si conclude con il ritorno al potere dei nemici, poi interlocutori diplomatici, capaci di manipolare l’inviato di Trump e poi di Biden, Zalmay Khalilzad. Tra quanti si sono illusi di poter trattenere le spinte egemoniche dei Talebani, imbrigliandoli in un negoziato che hanno usato per ottenere l’obiettivo a lungo coltivato: il ritiro delle truppe straniere e la nascita di un vero “Stato islamico”.

Per loro ora si apre una partita nuova che dopo le celebrazioni di rito porterà a nuovi conflitti interni tra le varie anime della Rabhari Shura, il massimo organo di indirizzo politico, già strattonato dalle capitali regionali che in questi anni hanno consolidato canali di comunicazione e finanziamento. Gli Stati Uniti escono di scena e i Paesi della regione si riprendono gli spazi di influenza. Una nuova partita geopolitica che si gioca sulla pelle degli afghani e delle afghane. ,

Increduli di fronte al collasso repentino di tutto l’apparato statuale. La giornata di oggi, come le ultime, è passata a cercare di capire come aiutare gli amici e le amiche di Kabul. Per loro si apre una nuova fase, personale e storica. Un’incognita piena di rischi di cui siamo tutti pienamente responsabili.

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