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Apeirogon – Questa non è una recensione

Un libro profondissimo, che scende nei dettagli di una terra di cui riesce a descrivere ogni centimetro, dolore, paura.

1 Apr , 2021

Apeirogon – Questa non è una recensione

Ho distrattamente letto la trama e ho chiuso subito il libro. L’ho lasciato lì, sul tavolo, con un sottile ma netto fastidio. Ancora l’ennesimo libro in cui, come una conditio sine qua non, bisogna mettere insieme un israeliano e un palestinese, un palestinese e un israeliano. Come fossero cavie del nostro singolare senso di colpa: dobbiamo metterli insieme in una gabbia, su un palcoscenico, in un film, in un libro, perché devono comprendersi e fare la pace. Loro. Devono fare la pace. Mentre noi assistiamo, prudentemente dietro un vetro, all’esperimento.

Debbono stare insieme. Come se non bastasse già quello che succede nel reale: esistere, vivere, sopravvivere sullo stesso pezzo di terra, in posizione asimmetrica. Occupante e occupato. Debbono stare insieme anche nel nostro immaginario. Non ci può essere solo uno dei due a parlare della questione israelo-palestinese. Secondo uno strano concetto di equanimità, non possiamo sentire una sola voce, né apparecchiare il palco per un sano contraddittorio. Dobbiamo metterli insieme, ma solo se già (in fondo) si amano e sono disposti a condividere un palco, un tavolo, un microfono. Non contraddittorio, dunque, ma normalizzazione.

Ecco il fastidio che ho provato, quando ho aperto Apeirogon, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Ancor più profondo quando ho letto che parlava di Parents’ Circle. Un’associazione meravigliosa, che avevo conosciuto tra Gerusalemme e Betlemme e che mette insieme il dolore indicibile di genitori a cui hanno ammazzato i figli. Perché? Perché usarli come una foglia di fico, anche loro? Perché non uscire finalmente dalla retorica della pace e parlare di quello che succede veramente nella terra di Israele-Palestina?

Il libro è rimasto lì, sul tavolo già ingombro di volumi da leggere al più presto, in questo tempo infinito e sospeso che, però, corre troppo in fretta. Apeirogon. Che strano titolo. E lui, l’autore, Colum McCann, perché vuole raccontare di due uomini così potenti, come Rami Elhanan e Bassam Aramin, padri devastati da un dolore che hanno poi trasformato in atto definitivamente politico?

“Fammi sapere che ne pensi, Paola”.

Il messaggio non ha fatto altro che approfondire quel senso di fastidio. Cosa c’è altro da spiegare? Cosa dovrei sapere di più, non solo dopo dieci anni di vita a Gerusalemme, ma dopo libri scritti, parole, ferite mai rimarginate?

Ho cominciato a leggere Apeirogon di sera, forzando il mio pregiudizio. Non l’ho più lasciato fino a che non sono arrivata all’ultima delle 1001 stanze in cui è suddiviso uno dei libri più potenti che io abbia letto negli ultimi anni.

Il primo stupore: un uomo che non ha vissuto anni in quella trama intricata di strade, checkpoint, confini invisibili, muri di cemento, tornelli, targhe di diversi colori su macchine spesso simili, mi getta di colpo dentro quella trama intricata di strade, muretti, checkpoint, colline a picco, muri di cemento armato, tornelli. Lo fa con una precisione che non riguarda solo e tanto la mappa studiata come se fosse una mappa militare. Conosce quei muretti che delimitano la strada che dal checkpoint di Beit Jala sale fino in cima. A destra Beit Jala, appunto, sobborgo di Betlemme. A sinistra, la via per l’insediamento illegale israeliano di Gilo. E l’hotel Everest, di cui tutti ricordiamo il parcheggio, le sedie rosse, l’atmosfera malinconica e dimessa. Colum McCann sa cosa si prova a fare la fila per passare un checkpoint, o il Muro di separazione a Betlemme o a Qalandia. O il Checkpoint Container,  che appare dopo i tornanti degni delle montagne russe che dovrebbero (dovrebbero) congiungere Betlemme a Gerusalemme e poi Ramallah.

Come fa a saperlo? Come fa a riportarci in un posto che già era ‘nostro’ perché io, e altri amici, ci abbiamo vissuto per anni con una totale partecipazione? Come fa a narrare in modo così magistrale e scevro di retorica due uomini così particolari, due pietre di quella terra già dura? Bassam Aramin e Rami Elhanan non sono solo due figure degne dell’Iliade. Non sono solo il padre di Abir (ammazzata da un proiettile sparato alla nuca da un soldato israeliano) e il padre di Smadar (uccisa e dilaniata in un attentato suicida commesso da tre terroristi palestinesi).. Sono dunque la funzione, la missione, la gioia di essere padre. Sono allo stesso tempo persone passate attraverso la Storia, nelle carceri il primo e nelle guerre il secondo, e poi nel pacifismo entrambi e poi nell’empatia del dolore entrambi.

Colum McCann ha fatto diverse operazioni insieme. Tutte complesse. Ha ridotto al minimo il rispecchiamento tra Bassam Aramin e Rami Elhanan, non si è piegato a dover dare ai suoi protagonisti metà della storia, metà del libro. Non ha usato bilance di precisione. Ha soprattutto definito tutte le cose con il nome che ha scelto di dare loro, compreso il Muro di Separazione. Ha raccontato con durezza del carcere e dei pestaggi subiti da Bassam Aramin durante i suoi otto anni nelle prigioni israeliane. Ha descritto l’occupazione in tutte le sue forme più insopportabili. Ha chiamato le cose con il loro nome. Apartheid compreso. Discriminazione compresa.

Soprattutto, ha dato voce a quelle vittime senza voce, senza più il diritto di poter raccontare, attraverso il racconto che delle proprie figlie fanno Bassam e Rami. Stanchi, ma senza alternative. Abir e Smadar sono agnelli sacrificali innocenti e candidi. Della prima ricorderemo per sempre il suo braccialetto di caramelle dai colori pastello, ricoperte da un sottile velo di zucchero impalpabile. Di Smadar il suo amore per Sinead O’Connor e i capelli corti. Agnelli sacrificali, candidi, innocenti, a distanza siderale dalla macchina della violenza. Piena di metallo e tecnica, questa macchina: esplosivo, automobili, detonatori, telefonini, mitra, fucili, proiettili di gomma, cinture esplosive, la grata di ferro sul vetro della jeep, i blocchi di cemento, le curve delle strade, le torrette, il Muro, il traffico in tilt, le strade su strade su autostrade che segnano sempre più inesorabilmente una terra che era deserto e uadi e giardini e città. Non una rete di strade libere o riservate, checkpoint, ponti levatoi dell’oggi, nastri di cemento intrecciati.

Tutto torna alla mente come un reflusso in gola. Le paure e la macchina delle paure. Il vento. La luce tanto dura e fortissima quanto gli animi di molti dei suoi abitanti. Il telefonino per essere sempre informati, anche dell’incolumità dei cari, dovunque, da qualsiasi parte della barricata. Gli ospedali, i medici degli ospedali. E gli uccelli, gli unici che possono passare sopra il Muro, anche se le separazioni incidono pure sui loro ritmi.

Apeirogon l’ho già finito. Già mi manca.

Ho distrattamente letto la trama e ho chiuso subito il libro. L’ho lasciato lì, sul tavolo, con un sottile ma netto fastidio. Ancora l’ennesimo libro in cui, come una conditio sine qua non, bisogna mettere insieme un israeliano e un palestinese, un palestinese e un israeliano. Come fossero cavie del nostro singolare senso di colpa: dobbiamo metterli insieme in una gabbia, su un palcoscenico, in un film, in un libro, perché devono comprendersi e fare la pace. Loro. Devono fare la pace. Mentre noi assistiamo, prudentemente dietro un vetro, all’esperimento.

Debbono stare insieme. Come se non bastasse già quello che succede nel reale: esistere, vivere, sopravvivere sullo stesso pezzo di terra, in posizione asimmetrica. Occupante e occupato. Debbono stare insieme anche nel nostro immaginario. Non ci può essere solo uno dei due a parlare della questione israelo-palestinese. Secondo uno strano concetto di equanimità, non possiamo sentire una sola voce, né apparecchiare il palco per un sano contraddittorio. Dobbiamo metterli insieme, ma solo se già (in fondo) si amano e sono disposti a condividere un palco, un tavolo, un microfono. Non contraddittorio, dunque, ma normalizzazione.

Ecco il fastidio che ho provato, quando ho aperto Apeirogon, pubblicato in Italia da Feltrinelli. Ancor più profondo quando ho letto che parlava di Parents’ Circle. Un’associazione meravigliosa, che avevo conosciuto tra Gerusalemme e Betlemme e che mette insieme il dolore indicibile di genitori a cui hanno ammazzato i figli. Perché? Perché usarli come una foglia di fico, anche loro? Perché non uscire finalmente dalla retorica della pace e parlare di quello che succede veramente nella terra di Israele-Palestina?

Il libro è rimasto lì, sul tavolo già ingombro di volumi da leggere al più presto, in questo tempo infinito e sospeso che, però, corre troppo in fretta. Apeirogon. Che strano titolo. E lui, l’autore, Colum McCann, perché vuole raccontare di due uomini così potenti, come Rami Elhanan e Bassam Aramin, padri devastati da un dolore che hanno poi trasformato in atto definitivamente politico?

“Fammi sapere che ne pensi, Paola”.

Il messaggio non ha fatto altro che approfondire quel senso di fastidio. Cosa c’è altro da spiegare? Cosa dovrei sapere di più, non solo dopo dieci anni di vita a Gerusalemme, ma dopo libri scritti, parole, ferite mai rimarginate?

Ho cominciato a leggere Apeirogon di sera, forzando il mio pregiudizio. Non l’ho più lasciato fino a che non sono arrivata all’ultima delle 1001 stanze in cui è suddiviso uno dei libri più potenti che io abbia letto negli ultimi anni.

Il primo stupore: un uomo che non ha vissuto anni in quella trama intricata di strade, checkpoint, confini invisibili, muri di cemento, tornelli, targhe di diversi colori su macchine spesso simili, mi getta di colpo dentro quella trama intricata di strade, muretti, checkpoint, colline a picco, muri di cemento armato, tornelli. Lo fa con una precisione che non riguarda solo e tanto la mappa studiata come se fosse una mappa militare. Conosce quei muretti che delimitano la strada che dal checkpoint di Beit Jala sale fino in cima. A destra Beit Jala, appunto, sobborgo di Betlemme. A sinistra, la via per l’insediamento illegale israeliano di Gilo. E l’hotel Everest, di cui tutti ricordiamo il parcheggio, le sedie rosse, l’atmosfera malinconica e dimessa. Colum McCann sa cosa si prova a fare la fila per passare un checkpoint, o il Muro di separazione a Betlemme o a Qalandia. O il Checkpoint Container,  che appare dopo i tornanti degni delle montagne russe che dovrebbero (dovrebbero) congiungere Betlemme a Gerusalemme e poi Ramallah.

Come fa a saperlo? Come fa a riportarci in un posto che già era ‘nostro’ perché io, e altri amici, ci abbiamo vissuto per anni con una totale partecipazione? Come fa a narrare in modo così magistrale e scevro di retorica due uomini così particolari, due pietre di quella terra già dura? Bassam Aramin e Rami Elhanan non sono solo due figure degne dell’Iliade. Non sono solo il padre di Abir (ammazzata da un proiettile sparato alla nuca da un soldato israeliano) e il padre di Smadar (uccisa e dilaniata in un attentato suicida commesso da tre terroristi palestinesi).. Sono dunque la funzione, la missione, la gioia di essere padre. Sono allo stesso tempo persone passate attraverso la Storia, nelle carceri il primo e nelle guerre il secondo, e poi nel pacifismo entrambi e poi nell’empatia del dolore entrambi.

Colum McCann ha fatto diverse operazioni insieme. Tutte complesse. Ha ridotto al minimo il rispecchiamento tra Bassam Aramin e Rami Elhanan, non si è piegato a dover dare ai suoi protagonisti metà della storia, metà del libro. Non ha usato bilance di precisione. Ha soprattutto definito tutte le cose con il nome che ha scelto di dare loro, compreso il Muro di Separazione. Ha raccontato con durezza del carcere e dei pestaggi subiti da Bassam Aramin durante i suoi otto anni nelle prigioni israeliane. Ha descritto l’occupazione in tutte le sue forme più insopportabili. Ha chiamato le cose con il loro nome. Apartheid compreso. Discriminazione compresa.

Soprattutto, ha dato voce a quelle vittime senza voce, senza più il diritto di poter raccontare, attraverso il racconto che delle proprie figlie fanno Bassam e Rami. Stanchi, ma senza alternative. Abir e Smadar sono agnelli sacrificali innocenti e candidi. Della prima ricorderemo per sempre il suo braccialetto di caramelle dai colori pastello, ricoperte da un sottile velo di zucchero impalpabile. Di Smadar il suo amore per Sinead O’Connor e i capelli corti. Agnelli sacrificali, candidi, innocenti, a distanza siderale dalla macchina della violenza. Piena di metallo e tecnica, questa macchina: esplosivo, automobili, detonatori, telefonini, mitra, fucili, proiettili di gomma, cinture esplosive, la grata di ferro sul vetro della jeep, i blocchi di cemento, le curve delle strade, le torrette, il Muro, il traffico in tilt, le strade su strade su autostrade che segnano sempre più inesorabilmente una terra che era deserto e uadi e giardini e città. Non una rete di strade libere o riservate, checkpoint, ponti levatoi dell’oggi, nastri di cemento intrecciati.

Tutto torna alla mente come un reflusso in gola. Le paure e la macchina delle paure. Il vento. La luce tanto dura e fortissima quanto gli animi di molti dei suoi abitanti. Il telefonino per essere sempre informati, anche dell’incolumità dei cari, dovunque, da qualsiasi parte della barricata. Gli ospedali, i medici degli ospedali. E gli uccelli, gli unici che possono passare sopra il Muro, anche se le separazioni incidono pure sui loro ritmi.

Apeirogon l’ho già finito. Già mi manca.

La foto è dal sito statunitense di Parents’ Circle.

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